Ljósbrot
2024
di Miriam Dimase
- Regia: Rúnar Rúnarsson
- Attori: Elín Hall, Mikael Kaabar, Baldur Einarsson, Katla Njálsdóttir, Ágúst Wigum
- Genere: Drammatico
- Paese: Islanda, Paesi Bassi, Croazia, Francia
- Durata: 82′
- Al cinema dal 14 agosto 2025
Una (Elín Hall) è una giovane studentessa d’arte che vive una giornata estiva intensa tra segreti e dolore. Dopo aver nascosto una relazione segreta con Diddi (Baldur Einarsson), fidanzato di Klara (Katla Njálsdóttir), Una si trova sola nel lutto quando un tragico incidente mette fine alla sua vita.
Ci sono momenti in cui gli sguardi dei personaggi si incrociano e si sostengono, in un effetto quasi bergmaniano: intensi, penetranti, capaci di dire molto più di quanto la voce riuscirebbe a spiegare. È lì che il film trova la sua verità, nella tensione muta tra occhi che cercano una risposta e che finiscono invece per specchiarsi nel dolore dell’altro.
La regia lavora con estrema precisione, affidandosi a immagini che sembrano costruite come quadri di luce. Non c’è nulla di casuale: gli specchi che duplicano i volti, le superfici che riflettono corpi spezzati, gli abbracci che interrompono il vuoto. Tutto contribuisce a comporre una narrazione fatta di dettagli minimi, dove i gesti diventano simboli e il non detto diventa il cuore stesso del racconto. La luce, frammentata e cangiante, non è solo cornice: accompagna i personaggi, li divide e li riconcilia, assumendo il ruolo di metafora visiva delle loro ferite e dei loro tentativi di guarigione. È attraverso questi bagliori che la storia prende consistenza, come se fosse la luce stessa a guidare i protagonisti verso una possibile ricomposizione.
Naturalmente, tanta cura estetica non è priva di rischi. A volte si ha la sensazione che la ricerca formale prevalga sull’urgenza emotiva, come se l’immagine volesse controllare fino in fondo l’esperienza dello spettatore. Il risultato è un film che affascina e colpisce, ma che può anche lasciare un po’ di distanza: non sempre ci si sente accolti, più spesso ci si ritrova a contemplare.
La tragedia, però, non resta confinata ai protagonisti, ma si riflette sull’intera nazione che li circonda: una piccola terra di cui raramente si sente parlare, fragile e marginale, ma proprio per questo ancora più esposta al peso della storia. I gesti quotidiani – una passeggiata, una discussione per strada, persino una lite con un autista – diventano allora metafora di una libertà apparente, minacciata da forze più grandi e incontrollabili.
Ed è in questo contrasto che il film trova la sua forza: nel raccontare come, anche in una comunità minuta e quasi invisibile agli occhi del mondo, la tragedia possa assumere dimensioni universali. Una parabola che ci ricorda come nessuna nazione, per quanto piccola, possa sentirsi al riparo dal dolore collettivo e dalle contraddizioni dell’esistenza.


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