La zona d’interesse

  • Regia: Jonathan Glazer
  • Attori: Sandra Huller, Christian Friedel
  • Genere: Drammatico
  • Paese: USA, Regno Unito
  • Durata: 105′
  • Al cinema dal 22 febbraio 2024

Rudolf Hess (comandante del campo di concentramento di Auschwitz), sua moglie Hedwig e i cinque figli, trascorrono la loro quotidiana esistenza in un’accogliente villa (la “zona di interesse”) separata da un muro da quello che è stato definito uno dei più grandi campi di sterminio dell’umanità.

Immagina di essere circondato da un buio profondo, dove ogni suono sembra amplificato. 

Le urla di orrore arrivano come colpi improvvisi, vibranti nell’aria, mentre tu sei incapace di vedere cosa le provoca. La tua mente è sconvolta per l’assenza di informazioni visive, lasciandoti vulnerabile e pieno di ansia. Questa è la percezione che potresti avvertire sin dalla prima inquadratura, una scena completamente buia che dura alcuni interminabili minuti. Ma i personaggi che vivono nella “zona di interesse” sono invece consapevoli degli orrori che avvengono al di là del muro, o meglio, scelgono di ignorarli o giustificarli, per mantenere il potere e la propaganda al regime.

I protagonisti si muovono con maniacale perfezione all’interno della cornice, inquadrati da camere fisse, creando un senso di profondità e dimensione. I loro gesti sono accompagnati da una musica perturbante, suoni dissonanti che evocano sensazioni di tensione e angoscia. Ma è il paesaggio sonoro che rende l’orrore ancora più tangibile: il rumore incessante dei treni in lontananza, i motori dei camion, il crepitio del fuoco e le grida soffocate, come se il dolore stesso cercasse di oltrepassare quel muro. Non vediamo, ma sentiamo. E nel sentire, immaginiamo. E poi c’è l’immagine della bambina in negativo—una visione che squarcia la narrazione, un’intrusione fantasmagorica che ribalta la percezione dello spettatore. Il negativo rovescia la realtà, la sovverte: il bianco diventa nero, la luce si trasforma in oscurità. È il passato che si imprime sul presente, come una pellicola bruciata che si rifiuta di dissolversi. La bambina, in questa distorsione visiva, diventa quasi un’eco di tutte le vite spezzate, un simbolo che esiste fuori dal tempo, un ammonimento che ci osserva senza possibilità di redenzione.

La sottomissione dello sguardo in macchina non avviene mai, se non “forse” durante un flashback che ci riporta ai nostri tempi e nei luoghi dove la memoria non dovrà mai essere cancellata. Ma è proprio in questi squarci visivi e sonori che il film trova la sua vera forza: un cinema che non mostra l’orrore, ma lo fa sentire, insinuandolo nella coscienza dello spettatore.

Classificazione: 4 su 5.

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